“Volevo che la mia camera da letto bianca si estendesse al di là di ogni ragionevolezza. L’Antartide, solo l’Antartide.”
Jenny cerca il bianco, assoluto, perfetto: la quintessenza del vuoto, l’emblema della pace. La sua camera da letto è bianca, e al risveglio ogni mattina, Jenny si fa assorbire dall’enorme distesa, che va dalle pareti alle lenzuola, crogiolandosi nella sconfinata e immensa privazione di colori. Mai del tutto soddisfatta.
C’è l’Antartide nei suoi sogni, là dove crede che il bianco sia ancora più assoluto, totale, luogo di silenzio, di assenza. E’ lì che Jenny vuole andare, lontano dalla sua camera, lontano dal candore dell’ospedale psichiatrico, lontano dalla sua depressione.
Un viaggio che è un pellegrinaggio, il suo, difficile nell’organizzazione: nessuno va in Antartide, solo gli scienziati. Poi le si offre la possibilità di una crociera, e lei parte, per attraversare, con i ghiacci e il freddo e il mare, il dolore della sua mente e del suo cuore. Il dolore che nasce da una vita segnata da turbini emotivi, familiari, e da un rapporto disperato con la madre.
“Nella rollante cuccetta della cabina 532 mi resi conto che la verità (o il suo contrario) di un libro sull’Antartide e sua mia madre non dipendeva dall’arrivare a destinazione. O dal non riuscire ad arrivarci.”
Al largo. Nella navigazione, tra mal di mare e febbre, e poi dentro ad altre tempeste, quelle del cuore, indietro nel tempo, per ritrovare il personaggio Jennifer, che pattinava davanti alla madre, e lo faceva dove il ghiaccio era più pericoloso, dove già la lastra era fragile. Una Jenny alla mercé del freddo e dei sentimenti, abbandonata dal padre, ferita dalla madre, in balia delle onde nel recupero della sua storia e nell’incontro con iceberg e ricordi.
La sua è un’impresa eroica, come quella dell’Encourage di Ernest Henry Shackleton , e lei una moderna esploratrice della sua anima, che arranca faticosamente, sferzata dal vento, dalla neve, e dai racconti di chi l’ha conosciuta da piccola, così elegante, così dolce, così amata. Fare la pace con il proprio passato è l’impresa più difficile, senza medaglie e senza monumenti, stele nel ghiaccio a ricordare la fatica, immensa come un iceberg, che improvvisamente appare, come una rivelazione, e non è bianco come si vorrebbe.
Perché i colori non si possono mai eliminare, così come i dolori. Restano lì, e il corpo non li assorbe mai del tutto, li restituisce vividi, costantemente mutevoli e immutabili, come il ghiaccio.
(…) questo era davvero un luogo di sogno nel quale lo sciogliersi e lo spostarsi sembravano solo accrescere l’immutabilità. Qui nulla rimane uguale, però nulla cambia.
Raggiungere un luogo di pace come controllo su di sé, un appagamento della propria angoscia, in un ambiente pieno di silenzio, una sconfinata pista da pattinaggio sul ghiaccio. E’ il territorio antartico, così sereno da far male al cuore, lontano da tutto, in capo al mondo. Lì per accogliere nella quiete, almeno per un poco.
Pattinare in Antartide è un libro di un’eleganza pura che lascia estasiati, grazie anche a una scrittura tersa come il bianco che dispiega davanti agli occhi di chi legge: un racconto senza maschere , senza scappatoie, a cuore aperto, dove la memoria, seppure dolorosa, salva dalla seduzione del vuoto.
Recensione di Francesca Cingoli