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“Tutto. È iniziato lì. Lo sai. Non sai come. Ma lo sai.
La te che sei diventata. Questa te che sei adesso, che scalcia nel buio che striscia e che trema.
Tutto. Non sai come. Ma è iniziato, lì, così. Lo sai.”
Quello di Andrea Donaera è uno stile di scrittura inconfondibile, e chi ha avuto la fortuna di leggere il suo romanzo d’esordio, Io sono la bestia, se n’è reso conto subito. A pelle. Perché è lì che si sente, la potenza di una lingua dolce, semplice e quotidiana, a tratti vernacolare che riesce inaspettatamente a far male, a trafiggere con una durezza viscerale che lascia turbati, e che resta addosso anche quando la storia finisce.
Quella di Lei che non tocca mai terra è una vicenda familiare, che innesta dinamiche morbose e torbide di dolore e di tormento, dove l’amore adolescenziale è la nota struggente di un’umanità delicata, e fa da contraltare a un mondo adulto sconfitto.
Miriam è in coma, è stata travolta da un’auto di notte. Intorno a lei, gravita un piccolo mondo moderno, la madre Mara, il padre Lucio, e Andrea, con cui ha passato una serata che non è nemmeno andata bene. Ma l’amore e le sue ossessioni nascono in maniera imprevedibile, a Miriam questo ragazzone tutto sbagliato è piaciuto, e Andrea non si stacca dal suo letto, ancorato a lei, le parla, di continuo, convinto che le parole servano a farla svegliare. E Miriam, dal limbo oscuro nel quale è imprigionata, risponde.
“È come se fossi morta. Non è la mia voce. Non è la mia vita.
«Tu sei ancora viva, sei ancora qui.»
Qui tutto trema. Tutto striscia.
«Ci sono io, Tieniti a me.»
Ci sei tu.”
Sulla disgrazia di Miriam e della sua famiglia incombe un personaggio santone, Papa Nanni. La sua casa e il suo santuario sono sede di sedute religiose e di esorcismi, il suo è un carisma cupo che come un magnete attira fanatismi, estirpa il Male, pratica la purificazione e trasuda violenza.
È un Salento gotico, quello di Andrea Donaera, anima heavy metal e tratto di poeta: nelle sue pagine la Puglia, pur così presente e concreta, si trasfigura per diventare una terra selvaggia senza collocazione, senza tempo. Un luogo primitivo e oscuro, di delitti efferati e sensi di colpa atavici, dove tutti sono Caini.
Lei che non tocca mai terra si compone come un coro: si alternano i personaggi, ognuno con la sua voce, la sua personalità, il suo dolore. Ci sono pentimenti e recriminazioni, preghiere e rimpianti. “Certe volte, piccinna mia, ‘sta cosa mi pare che è ‘n’opera del diavolo”. Da Bologna dove studia, arriva anche la voce registrata di Gabry, l’amica di Miriam, con il suo contributo alla talking care e con la sua invocazione al ritorno, alla normalità di un’adolescenza che non accetta maschere e falsità nemmeno in amore. Ognuno, nei sette giorni che compongono la storia, fa in modo di tenere Miriam attaccata alla vita.
Nella sua ballata, dove il Male è percepito ovunque e la realtà è fatta di esaltazione e vendetta, Donaera costruisce un ritmo ossessivo mischiando preghiere laiche a religiosità esaltata, dove le parole rimbalzano e si ripetono, come un canto delirante, come una litania del dolore, con il ritmo convulso di un tamburello.
Non solo Miriam: i personaggi di questa storia sono tutti in coma, tutti nel buio del loro inferno, segnati dalle tragedie, condannati dall’ignoranza e dalla superstizione. Ci sono foto sbiadite a ricordare drammi vissuti, e colpe non pagate, c’è una madre che è un cadavere vivente, una donna che ha smesso di esistere dopo il suicidio del marito, figli che brancolano cercando di mettere insieme i pezzi della loro vita come schegge di uno specchio rotto. Tutti in un inferno, cose a pezzi, attorcigliati in una striscia nera che avvolge ogni pensiero.
“Mia madre è malata di vuoto. Quando mio padre ha sparato è successo che il proiettile ha fatto molti buchi: uno è nell’anima di mia madre - un altro nella mia testa.”
Mentre la storia allunga i suoi tentacoli nell’inconscio, e nel senso della caduta che annienta, Donaera tira fuori dal cappello una delle dichiarazioni di amore più belle e intense, che spezzano il cuore con un’intensità disarmante. Perché l’amore è proprio quello: colla calda che cola in mezzo ai nostri spazi vuoti e li riempie. Dal buio si sprigiona il più abbagliante fulgore, quello dell’amore che si libera del marchio del peccato e si innalza sull’orrore. Emozione purissima di un autore che torna a incantare.
“Penso che è così che nascono le ossessioni. Uno qualunque vede una persona qualunque. Ma a lui, quella, non sembra una persona qualunque. Gli sembra come se quella persona è tornata.”
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