Un misterioso gentiluomo, in abito scuro, attraversa a piedi Milano nel silenzio dette prime ore pomeridiane, o di notte, quando l'ultima carrozza finisce la sua corsa. È un osservatore curioso, attento e senza fretta, che annota scrupolosamente ciò che vede nelle vie affollate e scintillanti del benessere, ma soprattutto nei bassifondi della periferia sofferente e più degradata, raccontata con la cinica malinconia dello scrittore solitario sorretto dal suo crudo realismo biologico. L'uomo si sofferma ad ascoltare le lamentele del vetturino in piazza della Scala, il chiasso degli amici all'osteria, la baraonda dei ricchi, gli amori e le gelosie tra bambinaie e camerati, la desolata disperazione degli emarginati. Al flâneur non sfugge la vita variegata «della città più città d'Italia» alle prese con l'Esposizione Universale e con gli anni dello sviluppo industriale, mentre il tessuto metropolitano guadagna sempre più spazio «là dove c'era l'erba». Nei decenni Settanta e Ottanta dell'Ottocento Verga visse nella capitale lombarda lunghi anni di operosa solitudine, trascorsi in larga parte nel duro lavoro quotidiano della scrittura, dedicato ad una Sicilia della memoria ricostruita «da lontano». Da quella condizione forzata non riuscivano a distrarlo te esperienze mondane dei veglioni, dei teatri e dei salotti esclusivi. Semmai, il giovamento arrivava dal circolo degli intellettuali frequentatori delle serate al Biffi o al Cova, in compagnia di Felice Cameroni, Luigi Gualdo, Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Luigi Capuana e tanti altri. In quelle sedi, tra l'ammirazione per Zola e i maestri francesi, si agitavano anche le discussioni per mettere a punto un metodo diverso per raccontare il reale e dare un nuovo destino al romanzo moderno.