“Da quando sono nato non ho fatto altro che portare disordine, un’esagerazione dietro l’altra, tutto un impulso da seguire, nel bene come nel male. Non so vivere in un altro modo, non riesco a sfuggire a questa ferocia: se c’è una vetta la devo raggiungere, se c’è un abisso lo devo toccare”.
L’abisso arriva una sera, con una crisi di rabbia incontrollata nel corso della quale Daniele, vent’anni, distrugge la casa, provoca un malore al padre e viene portato via: gli viene imposta una settimana di TSO, trattamento obbligatorio in ospedale, reparto psichiatria.
È l’estate del 1994, stanno per iniziare i mondiali di calcio, e con questi le serate con gli amici le birre, il divertimento: Daniele si ritrova invece in una specie di bara bianca, uno stanzone con sei letti, un caldo soffocante. Lui da anni combatte con il suo cuore, che sente più degli altri, la bellezza come il dolore: è un ragazzo senza corazza, senza un’armatura capace di tenerlo lontano dalle cose, dalla disperazione degli altri, da quella sensazione straziante di essere senza un senso, una piuma che un soffio di vento può portare via.
Nel tempo dilatato dell’ospedale, sul letto bagnato di sudore, Daniele vive la paura di trovarsi improvvisamente considerato pazzo in mezzo ai pazzi, lo sconforto per gli infermieri frustrati e intimoriti dalla diversità, il senso di nostalgia e di vergogna verso la famiglia, ancora una volta ferita dal suo male di vivere. Le parole della madre sono cariche di dolore e di speranza.
“Magari riusciranno a scopri’ che è che te fa tanto soffri’, perché un ragazzo de vent’anni dovrebbe esse felice, tu invece vai avanti a tristezza, non sapemo più che fa’ pe’ levattela de dosso”.
Per lui che cerca un senso alla vita, alla morte, alla sua stessa esistenza, che deve aver bisogno di trovare un significato, l’equilibrio è sempre stato precario e il conforto è arrivato da tutto quanto ha trovato disponibile: alcol, droghe, medicine. Soluzioni per trovare un possibile appagamento, che hanno portato solo nuove ferite, riportandolo al punto di partenza, con un malessere che lo scava dentro, un desiderio che si fa ossessione e malattia, e che si chiama salvezza.
I compagni di Daniele sono cinque sopravvissuti come lui al dolore, alle loro ossessioni, equilibristi sul filo di un animo troppo scoperto, in balia di tutto, dei ricordi, degli errori commessi, delle occasioni mancate, dei sogni: condannati a ripetere all’infinto il vissuto, a replicare nelle proprie menti uno spettacolo che sanguina come una ferita aperta, sono tutti meccanismi rotti agli occhi dei medici, che, disamorati e indifferenti, cambiano farmaci, si affidano alla chimica, basta trovare il farmaco giusto.
Ma non tutto è da aggiustare, perché l’uomo non è un robot, ed è fatto anche di follia, di stranezze, di fragilità, che fanno sentire tutto di più, troppo di più.
“Io vorrei soltanto imparare ad accetta’ la vita, fa’ diventa’ tutto normale, come per gli altri”.
Per Daniele i mostri delle sue solitudini danno vita a parole, a poesie, dichiarazioni d’amore per la madre, la presenza costante che lo viene a prendere, all’uscita da scuola e nel profondo delle sue paure. Daniele scrive, e le parole sulla carta sono la sua vera cura, rimarginano piaghe e pagano debiti. Sono parole cariche di verità e regalano commozione.
Nelle giornate che passano, gli occhi di Daniele si abituano al bianco, all’odore dei corpi, ai rumori della notte, ai volti e agli sguardi dei suoi compagni, e diventano consapevoli di un percorso possibile.
“Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare”.
Tutto chiede salvezza è un romanzo scritto da un poeta, che guarda negli occhi chi legge con la dignità e la forza della prima persona, senza filtri, con parole che restituiscono realtà. Chiede impegno, Daniele Mencarelli, chiede il cuore, perché porta a fondo, nelle oscurità dell’animo, dove la luce non c’è. E in quel fondo si mostra nudo, in una maniera così semplice che lascia anche noi lettori senza protezione, vulnerabili. È un racconto che rende giustizia al disagio, senza catalogarlo, ma raccontandolo nell’intimo con la coscienza di chi nel dolore ha imparato il valore della propria fragilità.
La salvezza arriva con la speranza che viene dalla fratellanza, dall’umanità, con occhi che si incontrano e si riconoscono nella stessa esperienza, nella stessa capacità di vivere con le proprie malconce emozioni, e con le parole che scavano e portano in superficie la pietà, come solo la poesia sa fare.
Recensione di Francesca Cingoli