“Ciò che odiava anche della turbolenza più lieve era il modo in cui poneva fine all’illusione di sicurezza, il modo in cui rendeva impossibile fingere di trovarsi in un luogo protetto”.
La turbolenza in volo toglie ogni certezza, si fa sospensione, e poi paura, e poi sorpresa di averla scampata. È insicurezza e instabilità totale, inquietudine che, una volta passata, fa guardare intorno a sé con occhi nuovi, in una normalità ritrovata più limpida. C’è una dimensione istintiva nella paura di volare, che mette l’uomo da solo di fronte alla sua impotenza.
I voli che sono all’origine dei dodici racconti di Turbolenza di David Szalay sono descritti solo come tratte, momenti di transito, da un codice aeroportuale all’altro: sono Uber e taxi, sono drink prima del decollo, sono sguardi dall’alto, vassoi del pranzo, Coca-Cola rovesciate, incontri e momenti di solitudine assoluta.
In una sorta di staffetta in cui il protagonista del primo racconto passa la mano a quello del secondo, Szalay profila un viaggio attorno al mondo che da Londra porta a Madrid, a Dakar, a San Paolo, a Toronto, a Seattle, a Hong Kong, a Saigon, a Bangkok, a Delhi, a Kochi, a Doha, a Budapest, per poi tornare a Londra. Un viaggio circolare, uno scalo dopo l’altro, nel quale il mondo risulta fatto di innumerevoli punti, sempre più vicini, sempre più facili da raggiungere mentre le persone sembrano allontanarsi, scoprendo distanze profonde tra le loro esistenze.
Il viaggio è una condizione provvisoria, che si è costretti a vivere in totale assenza di controllo, in un necessario abbandono: è la metafora della vita, senza punti fermi se non la partenza e l’arrivo.
In mezzo si vive, sballottati dalle turbolenze: dalla paura della malattia, dell’abbandono, della morte, dal contatto con altri esseri umani, che non si arriva mai pienamente a conoscere.
I racconti sono rapidi, asciutti baleni che illuminano per un attimo un frammento della vita del personaggio, e poi si spengono, lasciando un disagio che è fatto di normalità e di storie comuni.
Si cerca un equilibrio nella turbolenza, aggrappandosi alla speranza di una guarigione, di un amore solido che sappia aspettare, di una famiglia, fragilissima, come lo è l’uomo, abitante precario dell’aria e della terra.
Un romanzo minimal nella fattura, che dall’apparente semplicità narrativa fa scaturire una riflessione attenta e spinge a interrogarci su noi stessi con grande efficacia.
Viaggiatori nei terminal così come nella vita, con la frenesia di fare in tempo e la stanchezza del viaggio, l’ansia di trovare tutto a posto al proprio arrivo, e la consapevolezza del proprio essere senza riparo: i personaggi di Turbolenza siamo noi.
Ormai presuntuosi padroni del mondo, rimaniamo essere piccoli e spaventati, incapace di proteggerci, inevitabilmente mortali.
“E all’improvviso ecco di nuovo la voce del pilota che con terrificante serietà diceva: Assistenti di volo, ai vostri posti”.
Recensione di Francesca Cingoli