Ferrara, 1938. Il prefetto Rosario Mormino, spedito dalla Sicilia a rappresentare lo Stato fascista nella Bassa padana, tra scartafacci e incombenze quotidiani, ha avuto un'illuminazione. Ha notato una spiccata somiglianza tra il suo segretario e le figure ritratte negli affreschi rinascimentali di Palazzo Schifanoia: spalle strette, gambe arcuate, cranio bitorzoluto. Non sembra esserci dubbio: siamo di fronte all'archetipo di una "piccola razza", la "Razza Padana Orientale". Nell'Italia che si è appena scoperta ariana e sta per varare le leggi antiebraiche una tale rivelazione non potrà che assicurare al suo autore fama e gloria imperituri. Ma da umanista qual è, privo delle competenze del caso, per dimostrare la sua tesi ha bisogno dell'aiuto di qualcuno più ferrato di lui sull'argomento. E lo trova in una professoressa di scienze del liceo che ha notato nei suoi tragitti cittadini: un'ex insegnate, ebrea. Ex perché, a causa della sua appartenenza alla presunta razza ebraica, in Italia non può più insegnare. Guido Barbujani racconta come nel grigio e stolido conformismo del regime italiano si siano potuti affermare il mito della razza e le conseguenti persecuzioni. E lo fa attraverso una storia drammatica e paradossale, un racconto originale e affascinante, denso di ricostruzioni perfette del clima dell'epoca, con ambienti e dialoghi costruiti con umorismo dissacrante e grande attenzione ai dettagli. Un romanzo ironico e tragico sui deliri della storia che si chiude con una preziosa nota scientifica che illustra magistralmente come «prima di arrivare a concludere che la razza nell'uomo è una convenzione sociale e non un dato biologico ci siano voluti secoli: secoli nei quali, insieme a risultati scientifici di valore, sono state prodotte innumerevoli scemenze».