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Entrare in contatto con il proprio dolore, con tale forza da doverlo trasfigurare per poterlo gestire. Lo fanno i matti, lo sa Roberto, che lavora con loro: le loro crepe sono un’attrazione, verso una verità nascosta, verso la vera essenza di quello che siamo. Entrare in quella crepa vuol dire varcare un confine, una linea sottile tra la normalità e un buio, per approdare fuori dalla nebbia a capire l’anima che abbiamo.
È attratto da quella terra di nessuno, Roberto, dall’altrove che vede negli occhi dei matti, nello sguardo perso di Mirko. È uno sguardo che è anche il suo, quando fa i conti con il buco che sente nello stomaco, con il bisogno di colmarlo attraverso qualcosa che sia diverso dalla vita di sempre, dagli impegni, dalla famiglia, dalla routine. È arrivato a punto della sua vita in cui si sente un guscio vuoto senza emozioni, e la scrittura è l’ancora di salvezza, per far tacere ciò che palpita, un bisogno compulsivo di inventare storie, una dipendenza che fa affiorare la fantasia, e con lei il contenuto nascosto nel profondo. È un richiamo che viene dall’ignoto, che tende la mano offrendo un viaggio dentro di sé. Si chiama Fabbrico questo luogo dell’ignoto, un paese dove lo scrittore protagonista non è mai stato, ma riveste del significato del suo altrove.
Siamo fatti della stessa sostanza dei nostri dolori, e sono i nostri traumi a definirci, le nostre cicatrici che sono nascoste, agli altri ma anche a noi stessi: sono ombre che si muovono con noi, cercando di mostrarsi.
“Mi sentivo braccato, scappare era l’unica possibilità. Scappare da mia figlia, da mia moglie, dal mio lavoro, dal disagio che mi provoca ciò che sto scrivendo. La Fabbrico che scrivevo era una gabbia confortevole, quella che sto scrivendo non lo è più, è un fantasma invaso dai topi.
Dovevo scappare dalla sensazione che a scrivere non fossi davvero io.”
Il passato che affiora porta in superficie i topi, le nostre ferite mai curate, le colpe mai espiate, i no detti di istinto e che continuano a pesare sulla coscienza, responsabili di un destino compromesso. Fabbrico mette di fronte alle proprie scelte, e anche alle prese per il culo che hanno segnato la nostra crescita, ai dolori che abbiamo seppellito in giardino, ma restano attaccati alla pelle, tatuati per sempre.
Scrivere è una ricerca, senza risposta perché la domanda sfugge, si può solo ascoltare quel buco che chiama, perché si ha la sensazione di essere a un passo da una rivelazione: per Roberto è un passaggio per un luogo di fantasia e verità, e i racconti che scrive servono per raggiungerlo. Alice, Giuseppe, Andrea “Jack” sono i suoi personaggi, con i quali trasfigura se stesso, perdendosi dentro le loro storie, protagonista lui stesso di una realtà che sembra sfuggire di mano, e assumere contorni allucinati.
In quei racconti, di emozioni e di sentimenti, Roberto sente che c’è qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che gli appartiene fortemente, che lo chiama e lo spaventa allo stesso tempo: ne sarà risucchiato, perché quel vuoto che lo chiama vuole essere ascoltato.
“Non so se sto scrivendo racconti o un romanzo, ho la sensazione che una barriera si stia sgretolando, i protagonisti mi inquietano, mi accompagnano lungo una strada che non riconosco, sto perdendo il controllo.”
I ricordi sono film di fantasmi, e hanno la loro sede in una casa con cinque comignoli neri: quella casa abbandonata attende Roberto per fargli ritrovare se stesso, per metterlo in contatto con il suo io sepolto.
Attraverso la sua scrittura, Fabbrico e i suoi personaggi, Roberto si trova in un mondo parallelo, nel quale si fa trasportare, senza sapere se è in grado di sopportare quello che è destinato a scoprire. I suoi racconti e la sua vita si trovano intrecciati, e lui si trova ingoiato dalla terra.
Fabbrico attende i protagonisti delle storie, che diventano un romanzo, l’autore personaggio insieme agli altri: Fabbrico, con quella casa, quei cinque comignoli, i suoi ricordi più terribili, è parte di lui, è parte di loro, ed è tutto negli occhi neri di una donna incontrata a una presentazione in Olanda, occhi che lo guardano nel profondo, parlano nella sua testa, gli svelano le sue vergogne e i suoi fallimenti, gli sbattono in faccia con violenza la realtà che gli stava sfuggendo di mano.
“Sento qualcosa che mi chiama. Non è una voce. Non è un sussurro. È sotterraneo, arriva dalla terra, pulsa invisibile, senza fare rumore. È qualcosa che lotta per uscire, per strappare un velo, qualcosa che lotta e accarezza, qualcosa che, metodico, scava.”
Roberto Camurri compie un atto di grande coraggio: dopo A misura d’uomo e Il nome della madre, scrive un romanzo che è una prova altissima di scrittura, sconvolge qualsiasi logica, varca anche lui una linea sottile che lo porta in un territorio assolutamente nuovo, con una struttura anarchica e potentissima, e una penna lieve e poetica, ma incalzante. Camurri trasfigura la sua Fabbrico per farne un luogo ignoto, nero, infestato di traumi e topi, un’entità viva che respira e tiene incatenati, e compie l’impresa di raccontare il vuoto dentro di noi, facendolo protagonista delle sue storie, tra sogno e realtà: uno specchio nel quale guardare il vero volto di noi stessi, senza paura.
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