“Vorrei che fosse possibile immergermi in una qualche sostanza e venirne fuori pulita, pura, semplice. È di questo che ho nostalgia, di essere una persona semplice, come lo ero un tempo, sai, prima di quello che è successo, prima di quello che è successo a Vera, a Miloš e a me”.
Quando Vera, accusata di tradimento e rea di non aver denunciato il marito Miloš, viene rinchiusa nel gulag sull’isola di Goli Otok, non ha idea del destino che la vita può riservare alla figlia Nina, di appena sei anni. Sull’isola dei dannati, in uno dei campi di concentramento più efferati del maresciallo Tito, Vera trascorre due anni e 10 mesi orribili, senza notizie della figlia, e con l’animo rivolto al ricordo del marito.
Ritorna, sposa l’ebreo Tuvia, e Nina, la Sfinge, cresce nel kibbutz fredda e distaccata, toccata solo dall’amore del fratellastro Rafael.
Troppo il vuoto lasciato nella sua infanzia dall’abbandono della madre, tale che Nina non trova pace e cerca la fuga, la possibilità di un’altra vita, che la porta a essere anche lei una madre che abbandona, e si lascia alla spalle Rafael e la piccola Ghili: se ne va, sbandata, lasciandosi andare in un’esistenza senza barriere, senza dignità.
L’occasione del novantesimo compleanno di Vera, festeggiato nel kibbutz da tutti gli amici e i parenti che le si stringono intorno, diventa l’occasione di una resa dei conti tra passato e presente, con l’arrivo inatteso di Nina, che ha trascorso gli ultimi anni nei paesi freddi dell’Artico.
C’è un bisogno di recuperare la memoria, il non detto, un’esigenza profonda e dolorosa di capire, per queste tre donne, una nonna, una madre, una nipote, forti e orgogliose, legate dal rancore e da un amore tanto viscerale quanto ferito. Incomprensioni che negli anni si sono depositare fino a diventate roccia. “Chi sono senza l’odio per Nina?”
Il recupero della memoria non è solo confessione e espiazione, ma è anche deposito di immagini, volti e parole, per Nina che sta perdendo giorno dopo giorno pezzi di sé e degli altri, con lo spettro dell’Alzheimer a condannare la sua vita all’oblio, con tutti i suoi ricordi.
Vera, Nina, Ghili e Rafael decidono di partire, telecamera e tanti taccuini, e si riprendono, in macchina, nelle stanze di albergo, nel buio della notte. Parlano a quell’obiettivo rivolgendosi alla Nina che sarà, quella che non potrà più riconoscerli, un giorno, di fronte a un video, assistita e non più presente.
«Ascolterà la storia di se stessa» ripete Nina, stupita, come se solo adesso cominciasse a capire ciò che ci sta proponendo. «E forse questo la riporterà indietro per qualche istante. Le darà la sensazione di essere qualcuno. Finalmente avrà una storia.»
È un viaggio di ricerca perché la meta è Goli Otok, dove Vera deve rivivere i sassi, la polvere, il vento che ha sentito sulla sua pelle, quando non era una persona, ma solo una vittima, di soprusi e di sevizie; e il suo racconto è un ritrovamento rivolto al futuro, come ricerca di un’identità ma anche di una continuità, che appiani il risentimento, che colmi i vuoti del ricordo, che dia finalmente voce al non detto. Tre donne che hanno passato le loro esistenze a contare i giorni delle reciproche assenze, recriminando abbandoni, soffrendo le scelte dell’amore, in un triangolo dove la maternità e l’accudimento sono necessità e timore insieme.
In mezzo alle tre donne Rafael è un elemento paziente e silenzioso, un occhio che guarda e documenta, con rispetto e con generosità: il suo amore per Nina è ossessione, rimpianto e istinto di protezione.
“Magari secondo te lei non merita amore, ma io so amarla in qualunque situazione. E lei non è una donna facile da amare. Io so renderle le cose un po’ più sopportabili.”
Le parole di Vera piombano nella telecamera e nei cuori come macigni, quelli che lei doveva spostare a Goli Olok, supplizi e ricatti sull’animo di una madre segnata per sempre.
Nella sceneggiatura complessa del racconto, ci sono primi piani, silenzi, fermi immagine, abbracci rubati e sguardi di amore che costruiscono un affresco emozionante intenso e al tempo stesso feroce. Solo così è possibile liberare le proprie vite dal veleno del passato, e curare le ferite ereditate attraverso le tre generazioni ridando senso alla vita che è amore ma è implacabilmente anche dolore.
David Grossman entra con la grazia e la sensibilità che lo contraddistinguono nel profondo dell’animo femminile, lo fa suo, parla con la voce di tre donne e le restituisce in un romanzo che parla di destino, ricostruendo i pezzi della storia attraverso la vita di Eva Panić Nahir. È questo è il vero nome di Vera, e a lei, partigiana in Jugoslavia, reclusa da Tito a Goli Otok, membro di un kibbutz in Galilea è ispirato il libro, l’omaggio di uno scrittore sempre coraggioso di grande umanità.
Recensione di Francesca Cingoli