“Quelli erano, e probabilmente sono ancora, i due tipi di lavoro che potevi trovare appena arrivato in città: una specie di lavoro e il lavoro si fa per dire.”
Adam Gopnik e la moglie Martha arrivano a New York nei primi anni Ottanta dal Canada. La loro blue room è un seminterrato di 9 metri quadrati sull’ottantasettesima, infestato di scarafaggi ma capace di tenerli vicini, appiccicati uno all’altra, un’osmosi di sentimento, di ambizione e di talento. Una vita davanti: uno spazio minuscolo che apre grandi orizzonti, perché non si diventa Adam Gopnik all’improvviso. C’è intelligenza, nel racconto dei primi anni newyorkesi, e c’è ironia di chi si compra un completo blu perché l’immagine conta, e poi perde per strada i pantaloni.
I lavori (una specie, e un si fa per dire) sono alla Frick Library prima, al MoMA dopo finché non arriva l’occasione, per la quale il profilo di Adam è così inadeguato da essere perfetto. Adam inizia a lavorare da GQ e il suo è un ruolo costruito sulle parole, dove si rivela la sua naturale propensione alla scrittura, a trovare la definizione esatta per vendere un mondo. Sono anni in cui ci si poteva permettere di scrivere Chiaroscuro Chic e raccogliere approvazioni.
“Capii che scrivere con certezza era la sola certezza offerta dalla scrittura. Se lo dicevi, allora era vero.”
A Manhattan bastano un walkman e un paio di Nike per essere newyorkesi giusti, per vivere pienamente immersi nell’illusione di essere privilegiati, di poter passare le giornate cercando il bello, senza badare ad altro. E’ l’epoca del capitalismo, dove la compensazione del microscopico appartamento si trova nel consumo. I ristoranti diventano luoghi di incontro, patrie di conversazioni. Il gelato è sempre più grasso, e Häagen-Dazs è simbolo del tempo. Jeff Koons si afferma con le sue icone del consumismo, una visione ironica e cromata del mondo, e si fa gioco del sogno americano.
Sono tante le digressioni di Gopnik che parla di moda, di cibo, analizza le contraddizioni dell’arte, l’individualismo contro l’universalismo, parla di critica e di commercio. “Essere un buon giudice dell’arte significa avere la capacità di distinguere la contraddizione vitale dalla confusione corruttrice.”
Passati dal buco nel seminterrato a un loft a SoHo, Adam e Martha sono proiettati nelle mille luci di una New York creativa, eccentrica, un fermento di incontri e di conoscenze, con melassa che cola dal soffitto, balle di fieno da spostare in piena notte con la vicina artista, ratti invasori e disinfestatori filosofi.
Il mondo è mutato, non solo per il denaro, non solo per la nuova generazione di yuppie: l’intrattenimento non è più isolato dall’arte, e l’ambizione si sublima nel lavoro, per una generazione che ancora non si vergogna di volere sempre di più. “L’ambizione era la vigorosa empietà dell’epoca.”
L’incontro con Richard Avedon segna un momento importante per Adam e Martha, e “Dick” rappresenta per entrambi un mentore carismatico che li accompagna per tutta la vita.
Le passeggiate con Dick attraversano Manhattan sotto il segno dei capolavori, dell’originalità, del genio.
Ma in mezzo alle luci e agli splendori del talento, quello che emerge in questa New York dai grandi talenti e dalle immense possibilità, è un senso latente di insicurezza che è diventata anima stessa della vita.
“Manhattan era una sorta di buco nero dove moltissime insicurezze erano collassate l’una sull’altra formando una massa così densa che nessun tipo di serenità sarebbe mai potuta sfuggire alla sua forza d’attrazione”.
E per Adam che fin da ragazzo era stato messo in guardia dal padre “non sottovalutare le insicurezze altrui”, il punto fermo rimane Martha, la loro routine, un riferimento sano, un’immagine di eleganza e di personalità che dà il valore alle sue giornate, agli incontri, ai personaggi un po’ matti, all’arte e alle parole. Perché si ritorna a casa, ormai firma eminente del New Yorker, per offrire scalpi dei nemici a questa donna che dorme sempre profondamente, e tutto ritrova un senso.
Io, lei, Manhattan mette in scena uno spettacolo affascinante, una celebrazione intensa di due grandi amori di Gopnik, la ragazza più graziosa mai vista, e la città più luminosa e cupa insieme, dove scoprire che solo scrivendo si è se stessi, insicuri e immensi.
“Scriviamo per non essere passati invano.”
Recensione di Francesca Cingoli