Disquieting Images, curata da Germano Celant e Melissa Harris, raccoglie una serie di fotografie radicate in esperienze inquietanti tanto reali quanto diverse nella loro varietà. La selezione delle opere sottolinea come l’attenzione vada posta nell’interpretazione, nella sfida, in ciò che viene espresso o lasciato inespresso.
È sulla scia degli anni ’60 – un decennio cruciale, durante il quale usi e ideali sociopolitici furono criticati, messi in discussione e definitivamente cancellati – che s’inscrive lo stile delle Disquieting Images in mostra, in gran parte ascrivibili al periodo dagli anni ’70 a oggi. Sono immagini che provengono da tutte le parti del mondo, dall’Iraq al Texas, dal Giappone al Vietnam dall’Africa ad Haiti, dal Rwanda all’Afganistan, e riguardano le metropoli quanto i piccoli centri urbani, come San Francisco, New York, Palermo, London, Provincetown, Emeryville o Seattle. Parlano di soggetti che erodono i confini dell’immaginabile, perché si avvicinano ad un universo del sociale che è latente e minaccioso perché tratta la violenza sul femminile, lo stravolgimento ecologico, gli abusi sugli animali, le ossessioni umane, le vittime della guerra e della famiglia.
Disquieting, inquietante, è un termine duttile, difficilmente circoscrivibile. Può descrivere un evento o un oggetto, o può farsi esperienza stessa dell’oggetto o dell’evento. Può essere una risposta profondamente individuale oppure evocata dagli altri: è l’opera o la circostanza a essere inquietante, oppure è la risposta data dagli altri a darne questa chiave di lettura? L’inquietudine è una reazione primaria e, al contempo, è alimentata da un sospetto condiviso e dal disagio. È entrambe le cose: è informe, eppure viscerale; non un giudizio, e tuttavia profondamente sentita; una quiete interrotta, un fragoroso silenzio, qualcosa d’ineludibile eppure minaccioso, angosciante, sgradevole...