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“Nessun
essere vivente era fuori adesso. Ma poi udii il corvo gridare un avvertimento.
Quindi qualcosa c'era, qualcosa era in arrivo. Vivo o morto. Tesi l'orecchio.
Non un rumore in casa. E di colpo ero piccolo e dicevo a me stesso che i mostri
non esistono. Mentivo, dicendo che i mostri non esistono. Perché l'indomani
arrivò.”
Una vita sull’orlo del precipizio: Roy e il fratello minore Carl hanno sempre vissuto così, fin da piccoli, quando il buio nascondeva dolori e orrori, e le loro esistenze iniziavano un cammino insieme, instabile come sul ghiaccio.
Il loro precipizio è un costante senso di pericolo, di perdizione, nel quale Roy ha il ruolo accudente e protettivo, e Carl è l’anima fragile ma affascinante, un sorriso che conquista, e innamora. È sempre stato così, Carl a cacciarsi nei guai, e Roy a tirarlo fuori, sistemando le cose, taciturno e ruvido con tutti.
Quando Carl se ne va per studiare in America, Roy costruisce poco per volta una vita normale, isolata, che lascia alle spalle rimpianti e vergogne. L’officina dello zio, poi una stazione di servizio, qualche birra e le risse per sfogare la rabbia che ha dentro. Quindici anni così, poi un giorno il rumore di una vecchia Cadillac rompe il silenzio e Carl ritorna.
Un Salto, subito dopo la curva delle Capre: il luogo più infido della zona, proprio accanto a casa Opgard. È il precipizio della storia, reale, concreto e cupo. Basta una frenata poco accorta e si piomba giù, nel vuoto. Lo vedono dalla finestra, i fratelli Opgard, e lo sentono dentro i loro animi, quella caduta senza urla, un tonfo sordo, il silenzio. Il Salto è la loro Rupe Tarpea, dove sono gettati traditori e deboli, e dove si accatastano i rottami e le infamie da dimenticare. Lì finiscono anche le colpe e i ricordi.
Quando dalla Cadillac insieme a Carl scende anche Shannon, bianca come la neve, delicata e risoluta, Roy inizia a scivolare, il ghiaccio che scricchiola sotto i suoi piedi, la tentazione di trasformarsi in Caino per quel fratello così bello e incosciente.
“<<Tu
e io, Roy, siamo soli al mondo, - era solito dire Carl.
Tutti gli altri che crediamo di amare o che ci amano sono miraggi nel deserto.
Tu e io, invece, siamo una cosa sola. Siamo fratelli. Due fratelli in un
deserto. Se crepa uno, crepa anche l'altro>>.
Sì, e la morte non ci separa. Ci unisce”.
Carl e Shannon arrivano con un progetto, un albergo da costruire in alta quota, partecipato da tutti, un’impresa che può portare lustro, unire la comunità in un’idea di rilancio turistico. Ma può portare anche menzogne e sangue.
Non c’è Harry Hole in questo nuovo Jo Nesbø biblico, cupo, raggelante nel suo essere universale. Il fratello è una storia di vergogna ma non di riscatto, piena di ostilità e di continui ritorni al passato. La famiglia che per sua natura è calore e protezione diventa nelle pagine dello scrittore norvegese un teatro di tradimenti e segreti, un ghiaccio sul cuore. Il piccolo villaggio è fatto di abitanti diffidenti e sleali, dove ogni incontro è uno scontro di sguardi e di segreti da svelare per farne ricatto o offesa.
Il fratello porta Jo Nesbø sul terreno impervio e seducente di un “suo” delitto e castigo, con la personalissima nota nesbiana che è capace di far sentire sulla pelle la minaccia, di tutto, anche della natura, e spezza il fiato come il freddo più ostile, o come un pugno nello stomaco, condannando tutti, senza appello, alla solitudine e al sospetto.
“Libero come un uccello? Un corno. È soltanto un'illusione che ci facciamo perché vogliamo crederlo. Ci muoviamo nello stesso maledetto cerchio, siamo uccelli in gabbia, solo che la gabbia è abbastanza grande e le sbarre così sottili che non le vediamo.”
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