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Nel 1992 la guerra nella ex Jugoslavia insegna a una bambina di sei anni il significato di essere profuga. Aida scappa con la mamma, lo stretto necessario con sé; le sue bambole più belle rimangono seppellite in giardino: trattiene la pipì, nel bosco, in mezzo agli estranei, nella concitazione di un bus gremito che deve portare lei e sua madre oltreconfine, dove le aspetta il padre. È spaventata, e sente su di sé la paura adulta della madre.
E poi saremo salvi è una storia di una famiglia, vite bosniache strappate alle loro radici. Si ritrovano a Milano, una casa, altre famiglie come loro. Per Aida ci sono i giochi con gli altri bambini, poi la scuola: lo straniamento di una lingua da imparare, la sensazione della diversità sulla pelle, gli sguardi, ma anche l’orgoglio di farcela. Ci sono Emilia e Franco, volontari e accoglienti, piatti di pasta per passare insieme le serate, sentirsi simili, abbracciare e insieme discutere.
Essere profughi è questo: per il padre Damir la rabbia, una nostalgia che diventa ossessione, la religione che di improvviso si fa presente, più prepotente, come un’ancora per riconoscersi ancora, agganciarsi a qualcosa. La madre Fatima è stordita, spaventata e annichilita da una realtà che non conosce e nella quale non si sforza di appartenere, fatalista, in attesa di qualcosa, Nafaka, dicono così.
Aida affronta la nuova vita con il coraggio di una bambina, che ha meno fardelli addosso e più forza di immaginazione, la volontà di crescere. Lei studia, impara, insieme alla lingua, una nuova maniera di essere a casa, altrove. Il suo nido sicuro lo costruisce un passo alla volta, con le amicizie, i primi amori, lo studio, e il distacco dai suoi: Franco e Emilia diventano una seconda famiglia, che le permette una progettualità impensabile con Fatima e Damir, destinata solo al fratellino Ibro, il maschio.
Crescendo, nelle varie fasi della sua evoluzione da bambina a ragazza a donna indipendente, Aida acquisisce la forza della sopravvivenza, e il coraggio di definire una sua identità, diversa, necessariamente, dalle sue radici.
E poi saremo salvi è un romanzo che percorre la tragedia di una delle pulizie etniche più atroci, e vicine, della storia moderna, ma non è un romanzo sulla guerra: è la storia, a suo modo piccola, e per questo universale, di chi cerca il suo posto nel mondo, e riesce ad emanciparsi, a costruire i suoi confini. «Non è vero che da giovani si soffre di meno».
Una storia piccola, una storia inaspettatamente quotidianità familiare. È questa la forza narrativa di Alessandra Carati che riesce, su uno sfondo così brutale, a raccontare la ricerca di propri equilibri, sulla strada difficile del diventare adulti, accettando le proprie fragilità e costruendo su quelle. Ci sono i conflitti di ogni famiglia, nella storia di Aida, nelle relazioni fondanti di ogni persona, nel rapporto in apparenza freddo con la madre, nella ricerca di un affetto con il padre, che era lì, sempre, bastava guardarlo in faccia, ci sono i dolori e le fatiche di tutti.
«Aida, tu non hai mai avuto bisogno di me.»
Mi ero impegnata tutta la vita perché fosse così, perché credevo che la mia indipendenza potesse accrescere il suo amore. Invece era tutto il contrario, amare la fragilità è più facile.
Ed è proprio l’accettazione della fragilità che può essere la chiave del ricongiungimento, attraverso un anello più debole, il fratello Ibro che accumula su di sé ogni delicatezza emotiva e disagio mentale, incarnando il disorientamento e lo straniamento più penoso, quello da se stesso. È nell’accudimento la verità del riconoscersi famiglia. Anche a Milano, anche senza poter abbracciare tutti i propri cari, rimasti là, affetti lacerati da una distanza da misurare col cuore, accettando una vita così, fatta di saluti senza la certezza di un nuovo incontro.
E poi saremo salvi è una lettura che nasce da un lavoro documentale ma molto empatico sulla realtà della lacerazione culturale, sociale, umana della guerra, così prossima a noi, e così trascurata, sulla quale Alessandra Carati riesce davvero con intensità a fare emergere una storia di coraggio, costruendo un racconto per fasi, per “quadri” dove crescere è sempre imparare a vivere, sopravvivendo.
«Come ti è passata la vita?».
«In un attimo. È entrata in un orecchio ed è uscita dall’altro. Così.» E aveva soffiato piano, come a spegnere una candela invisibile.
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