“Possa la tua vita essere un interminabile primo atto”.
Anna Naldini è cresciuta con questo augurio del nonno Pietro, il suo “prefe”: l’augurio di una vita piena di motivi per brindare, degna della Violetta della Traviata, del primo atto, s’intende: e solo il nonno la chiama così, Violetta, con quel secondo nome così evocativo e affettuoso.
Nel giorno del suo trentacinquesimo compleanno, motivi per brindare Anna (Violetta) non ne ha: giornalista precaria da sempre, accumulatrice seriale di lavoretti e collaborazioni, perde il suo incarico più solido, quella con lo storico giornale di sinistra La locomotiva.
Un brutto colpo per lei che, come tanti della sua generazione, fatica a far stare in piedi una sembianza di carriera, pendolare tra Legnano e Milano per curare servizi e rubriche, strappare un dettaglio, trovare un bar dove scrivere il pezzo, di corsa e poi ricominciare. Ne ha otto di incarichi così, anzi sette e nessuna prospettiva rosea. È un mondo così, quello dei trentenni e quarantenni di oggi, aggrappati a partite iva senza futuro, precari per forza, ragazzi per sempre.
“Ti sei mai chiesta perché la categoria sociologica dei giovani sia diventata così ampia? Perché non ci viene permesso di diventare adulti. Un giovane lavoricchia, si arrabatta, sta in affitto, si sposta molto. Un adulto mette radici, si sposa, compra casa, fa figli e carriera. Un tempo si diventava adulti prima dei trenta. Adesso a quaranta si è ancora giovani, giovanissimi”.
A lenire i pensieri ci sono i bicchieri di spoiler al Caffè Voltaire dell’amico Max, e poi Federica e Randa, così diverse e così sempre vicine, una certezza.
Ma è sempre il nonno Pietro, con la sua saggezza, ad accogliere gli smarrimenti della nipote, e a guidarla con il buonsenso di chi ha vissuto: il lavoro vero non è questa roba, il lavoro vero ha un nome, un reddito, un ufficio e la garanzia di un mutuo. Quindi, su allegra, schiena dritta e avanti, magari sulle note della Canzone di Gavroche che fin da piccola le dedica: “Je suis tombé par terre, c’est la faute à Voltaire, le nez dans le ruisseau c’est la faute à Rousseau”.
È solo il nonno a conoscere la vera Anna, a sapere le sue debolezze.
“Mah, Violetta… (..) tu hai sempre avuto questo problema, fai le cose per vedere come va. Anche quando eri piccola eri sempre lì a cacciarti in qualche guaio per vedere come ne uscivi.”
E nei guai Anna si caccia benissimo, in una storia di “vanità, precariato e sfiga”: accettando di seguire la campagna elettorale sia per La locomotiva, che inaspettatamente la richiama, sia per I probi viri, il giornale più di destra, a cui non può dire di no. Un incarico identico per altro, responsabile dei corsivini, piccoli approfondimenti più di costume che di vera analisi politica, non in prima fila, ma nelle retrovie. Anna ha l’accortezza di proporre di scrivere sotto pseudonimo. Voltaire e Rousseau, è ovvio.
Non è difficile: basta prendere i clichè della sinistra e criticarli con quelli della destra, e viceversa.
Perché la politica ormai si è ridotta a quello, slogan facilmente replicabili, in meme e tshirt, litigate a suon di tweet e di foto, fakenews, dichiarazioni e smentite. Una politica che sventola i vessilli in faccia alla gente, ma non è mai stata così lontana, privata anche della più banale ideologia.
Si può credere tutto e il contrario di tutto, le opinioni sono diventata merce inflazionata, lo dimostra Anna, che coi suoi corsivini speculari finisce per fare la sua parte anche con un discreto successo, in un mondo di superficialità in cui ormai il successo è dato dai trendtopic su twitter.
“Semplificare, semplificare, che tanto la complessità è roba inutile se non dannosa: se qualcuno fa lo sforzo di comprendere una parola in più, è solo per usarla contro di te”.
Poi, di fronte ad Anna e alle sue frustrazioni si presenta l’opportunità di fare la cosa giusta, mettendo a rischio tutto, anche una relazione, quelle di adesso, in videochiamata e sbornie. E’ una scelta che fa paura: c’è sempre la casa sicura di nonno Pietro a Lomello, un camino acceso e le serate al bar Juventus a giocare a scala quaranta. In una vita fatta di lavori instabili, dove la politica non dà risposte e ormai nemmeno domande, dove le storie d’amore si risolvono sui social, la tentazione di rifugiarsi altrove, negandosi alla realtà, è forte, ma solo a chi mancano punti di riferimento, a chi non ha nonno Pietro a ristabilire i pesi.
“Però ascoltami bene, Violetta: nella vita non si scappa. A meno che non ci siano delle pallottole che ti fischiano intorno. Da quelle sì, ma da tutto il resto no, Hai capito?”
Caffè Voltaire è uno di quei libri ben fatti dove l’intelligenza del pensiero incontra la leggerezza della penna: è un mondo comicamente drammatico quello che Laura Campiglio, giornalista acuta con il dono dell’ironia, racconta con una lucidità critica che non risparmia politica e cultura, che scopre le ferite insanabili sui giovani adulti che arrancano senza poter crescere e far crescere la società.
Un mondo che non è in grado di andare avanti senza le vecchie generazioni, per accudire i figli e per garantire un patrimonio di valori, è destinato a smarrire memoria e etica: è quello stesso mondo che, cieco alle proprie responsabilità, sta perdendo proprio i suoi padri morali, che hanno costruito l’Italia, morti invisibili nell’epidemia più atroce, quella dell’indifferenza.
Recensione di Francesca Cingoli