“È questa, la staratura di Nisida: che quando entro mi devo continuamente ricollocare, riposizionarmi, guardarmi le spalle e dentro, e poi passare di livella sul giudizio”.
Ogni mattina Elisabetta Maiorano varca i cancelli del carcere minorile di Nisida, dove insegna matematica: per lei quel luogo di sbarre e reclusione è uno spazio sospeso, un mondo al contrario che come per Alice lascia fuori la realtà. Dipende da come ci passi da quella porta, quello ti può fare grande o piccola. Elisabetta lascia fuori la solitudine, il dolore di essere vedova troppo presto, vecchia a cinquant’anni, mai madre. Nisida è per lei uno spazio di libertà, dove essere altro, utile a quegli allievi così uguali a tutti gli altri, insofferenti nei banchi e scatenati in cortile.
Un giorno, gli occhi di Elisabetta che si sono abituati al suo buio, intravedono una luce, e la intravedono dove è più assurdo trovarla: negli occhi di Almarina, una ragazzina romena violata, con soprusi di ogni genere, dentro per un piccolo reato. E dentro Almarina è salva.
Quei due sguardi si riconoscono, capiscono che la bruttezza lasciata fuori trova all’interno un riscatto. Elisabetta e Almarina, insegnante e allieva, si scelgono, nelle loro solitudini e nelle loro ferite, sedute su una panchina mentre gli altri si rincorrono sudati, loro due sono pari, una quasi madre e una quasi figlia.
Entrambe superstiti del mondo là fuori, la donna ormai vecchia e la ragazza cresciuta di colpo capiscono di appartenersi, di essere la speranza una dell’altra, per un nuovo inizio. Non tutto è facile, perché di fronte all’affetto c’è sempre la diffidenza altrui, ci sono i pregiudizi, e la praticità intrisa di burocrazia di chi decide di attenersi al proprio compito, con il giusto distacco, perché tutti non li si può salvare.
“Io mi metto a letto e penso che Almarina sta dormendo e mi addormento. E poi all’alba mi sveglio e penso che un giorno non la troverò più, come questi qua che non ho trovato più negli anni, e allora non dormirò più. E io non voglio morire di sonno, direttore”.
Elisabetta ha imparato a usare il setaccio nella vita, a ritrovarsi nelle mani solo le cose che valgono, a considerarle preziose, senza graduatorie: sa socchiudere un poco la porta per ascoltare l’altro, e quell’altro ha le fattezze di un’adolescente, a cui regalare un Natale, un vestito, una cena di schifezze, un vecchio film, lo smalto sulle unghie, insieme. Dopo questo non c’è più un ritorno, c’è solo il senso di un abbandono.
Elisabetta si impone, per questa occasione che è essere madre, di inventare un nuovo mondo, senza meraviglie, perché lei è stata Alice, ma è cresciuta e le porte che sa aprire sono quelle grigie degli uffici, dove affermare il suo coraggio e il suo diritto non alla maternità, ma all’amore stesso, alla possibilità di un termine diverso a cui aderire. L’amore non riconosce l’autorità.
“Perché ci vuole un sacco di tempo, o una poesia perfetta, per dire davvero le cose come stanno”.
In Almarina la vita si ridefinisce con la precisione di un compasso, che mette al centro la fragilità e la forza della speranza e la libertà di ricominciare, rialzandosi. Come il dolore chiede tempo per far crescere, l’amore si costruisce come un ponte tra il passato e il presente, dando all’esistenza la possibilità di ristabilire il proprio bilanciamento, pur negli scossoni delle tempeste, con una nuova rotta ancora da scrivere.
Lavora di cesello con le parole, Valeria Parrella, unica donna finalista al Premio Strega di quest’anno. La sua è una scrittura che esige attenzione, e restituisce cuore, catturando il lettore in pagine che sono un’emozione immediata, ruvida e delicata: dirette, semplici e terse, accarezzano ma fanno male.
Recensione di Francesca Cingoli