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Questo volume nasce come silloge di liriche composte nell’arco di quarant’anni, cresce per volontà propria, e diventa: un romanzo, un dramma, un regesto, uno zibaldone, un sillabario, un murales – insomma, definirlo un ibrido è riduttivo: come se perfino la parola “ibrido” fosse stata costretta a un cambiamento di sesso. Per di più, non tutto è stato previsto dall’autrice, che sa sempre appena un po’ di quanto è accaduto, o sta per accadere. Ma che razza di poeta è, Ludovica Ripa di Meana? Una razza venuta dallo spazio, cavalcando un’onda anomala, che annovera un esemplare solo. Un poeta che non si può leggere d’un fiato perché ti fa trasalire di continuo. Che canta quasi sempre ma non fa ballare quasi mai. Una fedele di un amore solo. Che mette tutto Dio dentro la parola che lo nomina, e poi, per ateo che tu sia, ti fa venerare quella parola, e perciò tutte le altre, come venereresti Dio, se ci credessi. Un poeta capace di scrivere un testo che ti cambia in mano per trasmutazione alchemica, che converte la poesia in prosa e la prosa in poesia, la pietra in foglie, e la neve del tempo nell’acqua degli occhi: questo libro. Che non assomiglia a nient’altro.
(Davide Tortorella)
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