Operare in ambito psichiatrico rappresenta una dinamica e creativa opportunità di affrancarsi da quelle condotte "egologiche", che rischiano di imprigionare in una sorta di "apologia dell'io solo", col pericolo di rappresentare la malattia mentale quale mera compromissione dell'apodissi della ragione. La "primordiale dissimmetria", nel complesso rapporto con "alterità estreme" con quelle "esistenze vulnerate" che incarnano l'enigmatica natura della psicopatologia, può e deve auspicabilmente diventare anche un virtuoso itinerario "est-etico" di maggior conquista di sé stessi. "L'alterità egoica" consente al proprio Io di "immedesimarsi" nel mondo dell'altro "come se" fosse il proprio, abiurando la concezione della "differenza" quale patologica estraneità. Rapportarsi con la malattia mentale, con questa "vulnus animae", evoca fondamentali quesiti sul senso stesso dell'esistenza, col rischio di indurre a una solipsistica cristallizzazione su sé stessi. È fondamentale schiudersi a una rinnovata antropologia dialogica che offra maggiori possibilità di comprensione di altrui "sistemi".