“Bois Sauvage era sprofondata nell’insenatura, minuscola e isolata. Era delimitata su tre lati da confini naturali. A sud, est e ovest la cingeva il bayou, lo stesso in cui si riversava il fiume Wolf prima di raccogliersi nella baia degli Angeli e sfociare infine nel golfo del Messico”.
È un’estate caldissima nel bayou di Bois Sauvage, e per Joshua e Christophe che si sono appena diplomati ci sono giornate da riempire, festeggiare tuffandosi dal ponte nell’acqua melmosa, fumare un blunt finché la pigrizia non lascia spazio al torpore dell’erba, girare tra un Walmart e un McDonalds a compilare moduli per un lavoro.
I due fratelli gemelli si muovono in sincronia: magro e nervoso uno, possente e apparentemente più lento l’altro, così uguali, e così diversi come solo il sangue riesce a fare, sono fratelli nel gioco, nel dolore, nella solitudine. Abbandonati dalla madre che ha cercato fortuna ad Atlanta e dal padre, tossicodipendente e sbandato, trovano forza in loro stessi, cercando un posto simile nel mondo.
“Ma erano imprevedibili, quei due. Avevano i loro segreti e se li tenevano stretti: Christophe con la sua rabbia che covava lenta sotto la cenere, e Joshua con la sua improvvisa, sporadica sventatezza. Sì, ciascuno aveva il suo carattere, ma la pelle di uno era la pelle dell’altro, come per tutti i gemelli”.
Dopo Salvare le ossa e Canta, spirito, canta Jesmyn Ward riporta il lettore indietro negli anni, sempre nella stessa terra del Mississippi, gonfia di umidità e di insetti, di povertà e di insoddisfazione. Vi ritroviamo il senso della sconfitta, la rassegnazione di chi sa di non poter aspirare a niente di più che a scaricare sacchi al porto, se è fortunato, con la sensazione del disastro imminente. Ma per i suoi uomini e le sue donne, Bois Savage è la terra di Dio.
“nella luce del tramonto, nel vento forte, l’erba di palude tremava e frustava l’aria, girandosi da una parte e dall’altra per catturare la luce, passando dal verde al dorato, al rosa, al colore del grano. La vegetazione fremeva piegandosi alla carezza dell’aria che dal golfo soffiava fino al lago, attraversando la stretta lingua di sabbia, erba e pini”.
Sono bravi ragazzi Joshua e Christophe, allevati dalla nonna Ma-mee, cieca e saggia. Non ha bisogno degli occhi per riconoscere i suoi nipoti, per interpretare dal loro odore e dai loro passi il significato della loro giornata, le tensioni dei loro diciotto anni, le loro paure, il loro bisogno di essere protetti.
Ma-mee pulisce gamberetti e capisce ogni cosa, anche quando Christophe rischia di perdersi sulla strada sbagliata, anche quando Joshua si innamora, anche quando il padre e la madre si presentano alla porta.
Lei veglia sui suoi ragazzi, con le loro treccine curate, i pantaloncini e le magliette sempre sudate: nella sua ombra che è amore puro, Ma-mee è una custode che li difende dal mondo esterno e da se stessi, dalla loro istintività, guidandoli con una carezza o uno strattone.
“Il sole cercava di filtrare dai lati delle tende, riempiendo la casa di calore, di strida di insetti, delle voci dei pini, delle mimose, dei noci, delle querce. Tirò la zanzariera chiudendo fuori il ronzio sonnolento delle api tra le infiorescenze fucsia del lillà, fece un po’ di pulizia, e ascoltò i suoi ragazzi dormire”.
La linea del sangue è un romanzo carico di metafore, ha la potenza di una parabola, che parla di origini e di legami, che inizia proprio nell’acqua, l’elemento nel quale i due gemelli sono stati immersi insieme, da soli, il mondo fuori: sempre vicini, anche quando la sorte li allontana, speculari nelle loro ferite e nelle loro catarsi, i due fratelli solo nel ventre buio delle notti si ritrovano pienamente sinceri, e fragili, riscoprendo la lingua muta del loro essere uniti, corpi che respirano all’unisono, alla ricerca di una comune salvezza. Giocando con il simbolismo in modo magistrale, definendo una natura che è selvaggiamente aspra e pericolosa, di una bellezza disperata, Jesmyn Ward consegna un immenso terzo capitolo alla trilogia di Bois Savage, un canto universale di unioni, di silenzi e di amore.
Recensione di Francesca Cingoli