Cercare la felicità dove si sta, come fanno gli alberi, piantati per terra, oppure dovunque, come i lupi, che si spostano di continuo, cercandola sempre in nuovi posti, mai soddisfatti, sempre irrequieti: Paolo Cognetti torna a raccontare la montagna con una storia adulta che parla di amore, delusioni e ripartenze.
Fausto è uno scrittore fallito, reduce dalla separazione della moglie, che arriva a Fontana Fredda sulle Alpi per curarsi l'anima e ricominciare. Fausto cerca un rifugio e lo trova presso un ristorantino di montagna, Il pranzo di Babette, dove viene accolto e si improvvisa cuoco, a cucinare per gli sciatori, i gattisti, i montanari. È una seconda possibilità, una via per rimettersi in sesto, immergendosi nella concretezza e nella materialità quotidiana, lontano dalla solitudine meditabonda piena di parole nella quale si era intossicato il cuore. E lì, cucinando polenta e salsiccia per Babette, la sua inquietudine incontra quella di Silvia, la cameriera, anche lei alla ricerca di un nuovo inizio, o per lo meno di una tappa.
Scambiarsi calore e affetto è prima di tutto un fatto di sensi, è costruirsi intorno un piccolo rifugio, dove a parlare sono i corpi: quello di Fausto e Silvia è un sentimento che nasce come sesso, è un amore che sa di stufa, di capelli appena lavati, di grappa e di resina.
"Non era il tipo di ragazza che ti aspettavi di trovare tra i montanari: giovane, allegra, aria da giramondo, a vederla portare polenta e salsicce sembrava un segno dei tempi pure lei come le fioriture fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi."
L'altrove che cerca Fausto è fatto di genuinità: i piatti normali, sapori di sempre che sfamano e scaldano, i profumi e i rumori del bosco, gli alberi che cadono, la neve che si stacca, i boscaioli che mischiano fatica e dialetti.
Succedono cose semplici in La felicità del lupo, ed è lì che si annida il senso della continua ricerca : gli esseri umani sono cosa piccola di fronte alla montagna. Ci si affanna, ad amarsi, a lavorare, a inseguire sogni, e la montagna sta lì, maestosa e indifferente. Come il monte Fuji di Hokusai, sotto il quale l'umanità si agita nelle sue insignificanti attività, mentre lui resta silenzioso e impassibile. Le sue vedute ispirano i 36 capitoli di Cognetti in una meditazione che fa della montagna la vera protagonista del romanzo, anche come metafora: rivestita delle nostalgie e delle aspettative degli uomini, la montagna mette di fronte alla realtà che non è romantica, è vera, non restituisce l'amore degli uomini, li guarda e li sopporta come ospiti. La relazione con lei è fatta di fatica e sudore.
La montagna crea una stirpe tenace e rabbiosa, perché è lavoro duro, isolamento, frustrazione.
Santorso è un montanaro che ha chiuso le sue porte, che innaffia di alcol la sua solitudine, anche lui inquieto. Babette che sembra aver trovato la sua dimensione e il suo equilibrio con la sua attività, scappa appena può, cercando il suo rifugio nel mare e nel sole, mettendo spazio tra sé e la montagna, per poterla restituire alla sua essenza, per poter tornare ad accettarla.
"Conosci quel detto zen che parla di montagne? Dice: «Prima di avvicinarmi allo zen, per me le montagne erano solo montagne e i fiumi erano solo fiumi. Quando ho cominciato a praticare, le montagne non erano più montagne e i fiumi non erano più fiumi. Ma quando ho raggiunto la chiarezza, le montagne sono tornate montagne e i fiumi sono tornati fiumi»."
I tanti sentieri di montagna che guidano dentro i boschi o fin sopra un ghiacciaio sono altrettanti sentieri dell'animo. Alcuni portano avanti a cercare qualcosa di nuovo, altri riportano a casa, per recuperare qualcosa di lasciato indietro e irrisolto. Ognuno ha il suo rifugio, fisico o mentale, ad accoglierlo.
La natura di Cognetti non è un concetto, non è astrazione, è fatta di realtà, e la sua voce è composta di mille voci: quelle dei torrenti, che cambiano con le ore del giorno, quelle degli alberi, abeti e larici che affrontano con i loro colori e la loro ostinazione il freddo, quella del vento che sfilaccia le bandierine tibetane e con loro disfa le preghiere nell'aria, quella della neve, che si stacca, si ritira, si ghiaccia e con la sua vita rivela il corso delle stagioni.
Paolo Cognetti scrive con semplicità, con intensità ma senza retorica, rifugge ogni spettacolarizzazione, è limpido nelle immagini, e preciso nei dettagli, e la sua scrittura emana verità e profumo di legna fresca: con La felicità del lupo la spiritualità del rapporto con la montagna, la ricerca di armonia con se stessi attraverso la terra diventa nella penna di Cognetti una storia di amicizia e di amore che ridimensiona l'uomo, gli restituisce la dimensione che merita, piccolo di fronte alla grandezza, bisognoso del branco per scaldarsi, ma desideroso di solitudine per proteggersi, in perenne ricerca di un posto nel quale essere felice, per un po'.
"Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo."
Recensione di Francesca Cingoli