“Se la vita ti regala merda, usala come fertilizzante”.
È uno che non molla, Mike, anche se per lui il sogno americano è molto lontano, in una strada in salita. Ha poco più che vent’anni, ma ha già un bel bagaglio di vita: metà messicano, vive in una riserva indiana a Suquamish insieme alla madre e al fratello Nate, disabile. Il padre se n’è andato.
Cresciuto e educato nella convinzione che noi siamo in gran parte il prodotto dell’ambiente in cui viviamo, Mike ha aspettative basse ma grandi sogni. Nella sua mente non c’è solo Disneyland, la sua idea di felicità da quando era piccolo, ma un suo posto nel mondo.
Mike lavora come giardiniere, pulisce i prati dalla cacca dei cani dei ricchi, e nella sua povertà ha il mezzo privilegio di non sembrare messicano. Perché chi sta bene non vuole vedere girare sul suo prato quella gente. Così Miguel, per tutti Mike, ottiene qualche lavoretto, anche perché è bravissimo, un vero talento di arte topiaria: le sue siepi sono opere d’arte.
Quando non lavora, o è disoccupato, c’è il fratello da accudire, c’è qualche birra a buon mercato, e ci sono i libri. Leggere per Mike è una questione di crescita personale, ma è anche un rifugio: la biblioteca è l’unico punto saldo nella sua vita, un posto stabile e caldo, dove tutto è a disposizione anche per uno come lui, che vive in una roulotte. Nei libri cerca il realismo, cerca se stesso, e un senso di appartenenza.
“Io, il vecchio Mike Muñoz, voglio scoprire chi sono davvero per capire che cosa fare di me stesso. Vorrei tanto essere un vincente. La cosa che desidero di più al mondo è aprire le mie proverbiali ali e spiccare il volo per lasciarmi alle spalle questa cazzo di vita, o anche solo per allontanarmi un po’”.
Un nuovo lavoro, un furgone, un posto dove vivere, e il sogno di scrivere un grande romanzo americano sul giardinaggio: Mike ce la fa a non mollare l’idea di un futuro grandioso, e va avanti, con ironia, nella strada faticosa di quelli che come lui vivono nel mezzo, senza soldi, con dipinta in volto la maschera della miseria.
Sono la società discriminata degli ultimi, gli immigrati relegati ai lavori degli umili, che arrancano tra uffici di collocamento nella speranza di una risposta, e di uno stipendio, e finiscono preda di approfittatori senza scrupoli.
Ma quella di Mike è una mente testarda: lui sa che fuori ci sono possibilità, occasioni che arrivano e permettono di guardare avanti a testa alta. Sa che deve uscire nel mondo, per andare a prendere ciò che gli spetta, rifiutando la mediocrità, con il privilegio di non accontentarsi, e abbandonando l’abitudine all’autocommiserazione propria di chi perde sempre, una mano dopo l’altra. E soprattutto lui conosce la dote più grande, quella di saper volgere lo sguardo a scoprire il bello attorno a sé:
“Mi guardai intorno e vidi i volti illuminati dalle fiamme e mi chiesi perché non passavamo così tutte le sere. Vivevamo in un posto così bello e non me ne ero mai reso conto prima. Forse lo avevo sempre considerato brutto per abitudine”.
È un sognatore che fa la fame, Mike Muñoz, ma non smette mai di credere in se stesso, di cercare la propria strada, accettando ogni tappa con lo spirito di un conquistatore. Jonathan Evison è brillante e ironico, e vince scegliendo la strada della leggerezza per raccontare una storia di identità, che risponde al sopruso e all’emarginazione con la speranza e un’idea possibile di futuro.
Forse il sogno americano sta ancora tutto lì.
“Siete pronti? Ci sono ulteriori prove del fatto che le cose migliori capitano quando uno riesce a tenere duro su ciò che desidera”.
Recensione di Francesca Cingoli
