È un mondo bianco, igienizzato, ipercontrollato e climatizzato, quello del 2047: la pandemia ha allontanato le persone dalle città, d’estate il caldo e la luce sono violentissimi e pericolosi, d’inverno le piogge sono torrenziali. Si vive in ambienti domotici, asettici, regolati da computer, si comunica tramite ologrammi, si vive più a lungo e più belli, la tecnologia al servizio dell’estetica e all’illusione dell’eterna giovinezza.
In una realtà così rassicurante e insieme terribile, l’uomo sembra essere riuscito con il suo sapere a eliminare la violenza: un team di scienziati tra i quali la giovane Elisabetta Russo ha infatti individuato il gene C, responsabile dei comportamenti criminali. Perché delinquenti si nasce.
È una scoperta che viene osannata come salvifica e combattuta come inumana, perché ha conseguenze terribili: la legge Genesi impone il test genetico di ogni feto, e l’interruzione di gravidanza in presenza del gene C.
Quando l’uomo si erge a divinità, le riflessioni etiche, sociali, politiche della sua presunzione sono potenti.
“E se insieme a tutti i criminali stessimo uccidendo anche le menti migliori di questa generazione, gli artisti, gli scienziati?”
Nel proprio desiderio di combattere la sofferenza, preferendo l’eliminazione della colpa all’imposizione dei castighi, si cerca anche di liberare gli uomini dalla paura. Ma Elisabetta Russo si accorge presto che questo è impossibile. Non c’è bisogno di un motivo per avere paura, fa essa stessa parte della vita.
Infatti la società pulita e pacificata nella quale Elisabetta vive, è una realtà gonfia del proprio senso di giustizia che ha prodotto solo gente spaventata, sempre e nonostante la legge Genesi: si vive in “gusci di noce” iperprotettivi, barricati come in un assedio, sorvegliati di continuo.
Ma è solo quando Elisabetta incontra il suo vecchio collega, Franco Alberti, che in lei il ripensamento si fa più profondo, e accoglie anche il disagio per le deviazioni che la ricerca sta assumendo clandestinamente, generando perversioni, mettendo alla prova le sue convinzioni di genetista e di donna.
«Chi dice che non si possa cambiare la natura umana?
Non avremo più mostri, vivremo in pace e senza paura e, anche così, produrremo opere meravigliose. Perché non lo credi possibile?
«Perché i mostri siamo noi».
Tony Laudadio firma una favola distopica piena di riflessioni e di proiezioni di un mondo possibile: ne Il blu delle rose si resta umani grazie alla natura, che, violentata e sconvolta, rimane comunque meravigliosa, e si palesa al di fuori dei vetri delle case e delle automobili automatiche e silenziose come qualcosa di intenso, che produce fiori e paesaggi bellissimi. Si può ancora raccogliere la legna e accendere un camino, con un vero fuoco. Si può cucinare una cena che abbia il sapore della memoria. E si può amare, perché non è un codice genetico a qualificarci come essere umani.
Con una storia raccontata bene, coinvolgente e intrigante, Laudadio delinea una redenzione possibile dalla presunzione demiurgica nell’amore, che è quello del sangue, materno, ma anche del cuore, di un giardiniere che conosce il valore della cura e sa essere padre. E poi l’amore dei sensi, che non conosce codici né geni, e non conosce nemmeno la lingua. Perché l’amore non è estetica, programmazione e perfezione, ma è brividi, sguardi, e pelle.
E la speranza del nostro futuro, pandemico, temporalesco e connesso, è tutta lì.
Recensione di Francesca Cingoli