Ana ha quindici anni quando viene organizzato in tutta fretta il suo matrimonio con Juan Ruiz, che è molto più grande di lei: con i suoi fratelli sta mettendo insieme del lavoro a New York e promette di portare Ana, e poi tutta la sua famiglia, a vivere lì.
Non è pronta per essere moglie, la protagonista di Dominicana: è poco più di una bambina, che sogna il suo compagno di scuola Gabriel e le corse in bicicletta con lui.
Ma non può opporsi, perché in ballo c’è la possibilità di salvare la sua famiglia dalla povertà e da un futuro incerto nella Repubblica Dominicana, dove i conflitti e le tensioni sono sempre più forti.
Siamo a metà degli anni 60 e per Ana non c’è scelta: le viene confezionato un abito rosa, e si ritrova truccata, sposata, con i documenti falsi, su un volo per New York.
Pretendi. Pretendi. Pretendi. La madre le insegna come mettere a frutto l’opportunità per se stessa e per tutti loro, che staranno in attesa di soldi, regali, e poi di una chiamata.
New York è la terra promessa, il paese di bengodi, dove tutto è facile, e Ana deve saperci fare con il suo matrimonio.
“Vai a New York e gli pulisci la casa e gli cucini il cibo che lo farà ritornare a casa tutte le sere. Non lasciarlo mai uscire con la camicia stropicciata. Ricordagli di farsi la barba e di tagliarsi i capelli. Tagliagli le unghie così che le altre donne sapranno che c’è qualcuno che si occupa di lui. Pretendi che ci mandi denaro. Pretendi che si occupi di te. E cerca sempre di sgraffignare qualche soldino per te.”
Il freddo l’assale quando atterra a New York, dove nevica, tutto è spaventosamente grande e ostile, le viene detto di non guardare in faccia nessuno, di non uscire mai senza Juan, di non aprire la porta. Il cielo azzurro di New York è diverso da quello di casa e taglia la pelle.
La realtà di Ana è un appartamentino lurido sulla Broadway, sempre sola, terrorizzata dal rientro a casa del marito, che risulta misogino, violento, e traditore. Altro che regali e soldi da mandare ai suoi: Ana vive nella paura di ciò che c’è dentro casa, le botte e le umiliazioni, e di ciò che c’è fuori casa, strade tutte uguali, dove è possibile perdersi, e pericoli continui. Senza sapere la lingua, senza contatti con nessuno, senza soldi Ana resiste, con una capacità di resilienza incredibile per la sua età, e si avvicina a César, il fratello di Juan, spirito libero e eccentrico, così diverso da lui.
Quando Juan deve rientrare in patria per salvare i suoi affari, Ana finalmente libera inizia a studiare inglese, va al cinema e in spiaggia con César, incontra i vicini, inizia persino a guadagnare qualche soldo cucinando per gli operai della fabbrica dove lavora il cognato. Ana impara a sentirsi bella, canta con i dischi di César, e si adatta all’energia, ai ritmi e ai suoni di New York.
“Il mio respiro si è finalmente sintonizzato con quello della città. Ne sento la musica. Un allarme antincendio, la sirena della polizia, un autobus che accosta alla fermata, il camion della spazzatura che fa retromarcia e così via. All’inizio erano rumori fortissimi, quasi insopportabili, che mi mettevano in allarme, ma adesso li trovo piacevoli, come la radio o la televisione, o la casa piena di gente. Forse a New York in così tanti vivono soli perché ci sono i suoi rumori che tengono compagnia”.
Per scrivere Dominicana, Angie Cruz si è ispirata alla vita di sua madre Dania, e con lei alle vicende di tutte le donne emigrate, che conoscono l’alienazione, l’isolamento, la difficoltà di integrarsi.
Una storia che continua a ripetersi, anche oggi, cosi come le strade di New York piene di manifestanti che chiedono giustizia e piangono Malcom X, ritornano ai nostri giorni, uguali, con la stessa forza e lo stesso furore.
Accanto al tema dell’integrazione, c’è quello (anch’esso costantemente attuale) della violenza domestica che irrompe e definisce con forza la realtà di tante realtà di donne, chiuse nel dolore delle loro quattro mura trasformate in prigione, senza possibilità di fuga e senza speranza di comprensione.
Leggere questo romanzo aiuta a capire, e a com-patire, a sentire insieme a Ana, Dania, e a totas las Dominicanas la paura, il senso di smarrimento continuo: la scrittura di Angie Cruz entra sotto pelle, fa male e spezza il respiro di chi legge, in un insieme di commozione e imbarazzo.
“E così questa è New York, dice con un sorrisetto debole.
Non preoccuparti, Mamá, mi ha resa forte”.
Recensione di Francesca Cingoli