Bartezzaghi ritrae con la stessa attenzione la Milano "di sopra" e quella "di sotto". Le strade in cui passeggiare o fare "trekking urbano" e i meandri della metropolitana. Intorno alle fermate, e alle vie o piazze in cui portano, fioriscono le descrizioni della città passata e presente e dei suoi abitanti. Ogni dettaglio è preso, osservato, analizzato, giocato linguisticamente. Il tema della nominazione ricorre in tutto il testo, cosí anche la riflessione sulle parole e sulla memoria personale: l'autore ragiona sui tic linguistici, sul trionfo dell'aforisma a scapito del contesto, dà nuova energia ai simboli abusati (come ad esempio il labirinto), riflette sull'enigmistica che fa da sfondo e sistema alla sua vita. C'è una traccia costante che ritorna fra le pagine: l'idea di una "metronovela" da trasmettere sugli schermi alle fermate della metro al posto della pubblicità. Una storia a puntate, che si replichi per giorni affinché gli spettatori non si perdano qualcosa, e che prosegua la settimana successiva con la puntata nuova. Cosí, di tanto in tanto, compaiono i due protagonisti del format immaginario (Chuck e Dem, un nero canadese e un piccoletto greco) a fare da contraltare alla narrazione di un luogo come spettatori novizi, o a interpretare una situazione della metronovela «meneghino-globale». Quello che all'inizio può apparire come un inventario casuale di immagini e di idee va man mano a costruire una composizione coerente, il romanzo di una città e delle sue voci. La lingua-cornucopia di Bartezzaghi scava nell'ovvio e nel mediocre del quotidiano, dell'oggetto comune, e produce riverberi insoliti, lampi di ricordo, nuovi angoli d'osservazione, dando vita a un cantiere aperto sulla possibilità.