Siamo a Guzzano, Appennino modenese, nella casa in cui la famiglia Cornia passa l'estate e molta parte del tempo non lavorativo. È una vecchia casa. Gli animali sono una presenza famigliare. Non sono sempre e solo animali domestici, o almeno la loro domesticità non è quella tradizionale. C'è addirittura un annus mirabilis, il '92, in cui l'invasione di topi, arvicole e piccioni diventa una vera e propria occupazione – e la casa si copre di escrementi e le stanze si animano di dibattito su cosa è meglio o su cosa è peggio fare, e quale tolleranza o quale intolleranza si deve esercitare. Il dibattito torna vivo ora. C'è un'invasione di piccioni con vaiolo e la sorella del narratore, dolce animalista, si fa in quattro per curarli, e nondimeno si prende cura, almeno idealmente, dei topi. E infatti eccoli di nuovo i topi, anzi i ratti, prendere posto nella quiete della magione. Uno in particolare, piuttosto abitudinario, compare sempre sullo stesso scaffale della libreria – dal che sorge spontaneo al narratore il sospetto che il topo abbia qualcosa dell'umano e con l'umano abbia diviso quattromila anni di esistenza. Alle storie di ratti e piccioni fan seguito quelle di gatti (il cacciatore di prede Cito, l'avventuroso Cionci, la depressa Pinzia) e quelle dei cani: Billo, il setter cieco, e Tobi, il cane pazzo della sorella ("uno di quei cani morbosi che amano una persona sola"). Attraverso gli animali Ugo Cornia ricostruisce una fulminante storia di famiglia, dove con le bestie si parla, ci si infuria, si fanno patti, si stabiliscono confini, dove attraverso le bestie si dispiega il labirinto emotivo degli affetti, le stagioni di un'esistenza, le presenze amate, le assenze e le morti.