Il ricovero in ospedale per una banale appendicite si protrae oltre il previsto e al capezzale della giovane Lucy Barton, costretta a letto per piú di due mesi, compare come dal nulla la madre che Lucy non vedeva ormai da molti anni. Nella penombra asettica di quella stanza ha inizio un dialogo precipitoso e struggente tra madre e figlia. Interrotta dalle visite di un medico gentile, dall'andirivieni di tre infermiere e dal breve sonno intermittente delle due donne, la conversazione scorre pericolosamente a ritroso sfiorando a tratti nervi scoperti di un passato fatto di miseria, impotenza, tenerezza, vergogne, traumi. È difficile riprendere il filo del discorso, certo, ma è anche la cosa piú stupefacente che Lucy potesse desiderare: sentire la mano di sua madre strizzarle un piede attraverso il lenzuolo e udire la sua voce che racconta. Elizabeth Strout ha abituato i suoi lettori al gusto attento per le storie che, appena accennate, subito si trasformano in promesse di altri possibili romanzi. Mentre seguiamo lo scambio di ricordi e narrazioni tra Lucy e sua madre in ospedale, già sviluppiamo una sorta di nostalgia futura per le vicende dei personaggi che via via incontriamo, dalla sfortunata e ambiziosa Kathie Nicely, al professore artista tanto fiero della sua camicia comperata ai magazzini Bloomingdale's, allo squisito Jeremy, possessore di quegli oggetti «sintomo di un mondo raffinato» che Lucy non si ritiene in grado di capire, fino all'ineffabile, elegante scrittrice Sarah Payne. La vita si costruisce per accumulo di ipotesi, dichiara Lucy Barton, sulle ragioni degli altri, sulle loro insicurezze ed eventuali felicità. Un pomeriggio, piú o meno tre settimane dopo il mio ricovero in ospedale, voltai lo sguardo dalla fi nestra e vidi mia madre seduta ai piedi del letto. – Mamma? – dissi. – Ciao, Lucy, – disse lei. La sua voce mi parve timida, ma inderogabile. Si chinò e mi strinse un piede attraverso il lenzuolo. – Ciao, Bestiolina, – disse. Non vedevo mia madre da anni, continuavo a fi ssarla, non capivo come mai mi sembrasse tanto cambiata. – Mamma, come sei arrivata? – le chiesi. – Oh, ho preso un aereo –. Sventolò le dita e capii che l'emozione era troppa per entrambe. Perciò le risposi anch'io con un cenno delle dita e tornai a coricarmi. – Vedrai che guarisci, – aggiunse con la stessa voce timida e inderogabile di poco prima. – Non ho fatto nessun sogno. Che lei fosse lí, che mi chiamasse con quel vezzeggiativo che non sentivo piú da una vita, mi fece sentire dentro il tepore di un liquido caldo, come se tutta la mia tensione fosse stata un grumo solido e adesso non lo fosse piú. Di solito mi svegliavo verso mezzanotte e di lí in poi sonnecchiavo in modo discontinuo, oppure restavo sveglia a fi ssare le luci della città dalla fi nestra. Quella notte invece dormii un sonno fi lato e la mattina mia madre era seduta dove stava il giorno prima. – Non fa niente, – disse, quando le chiesi. – Lo sai che non dormo tanto. Le infermiere si offrirono di portarle una branda, ma lei scosse la testa. Scuoteva la testa ogni volta che una di loro tornava a proporgliela. Dopo un po' smisero di chiedere. Mia madre rimase con me per cinque notti, e dormí sempre seduta sulla stessa sedia.